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Dove vuole andare, sensei?
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Materiale linguistico moderno

Pastore, Antonietta

Dove vuole andare, sensei? : un viaggio nel cuore del Giappone / Antonietta Pastore ; illustrato da Bianca Bagnarelli

Torino : Einaudi, 2025

Abstract: Quello tra Antonietta Pastore e il Giappone è un rapporto di lunghissima data, dal primo viaggio, nel 1974, fino a oggi. In queste pagine lievi eppure ricche di aneddoti istruttivi, con voce partecipe, ironica e generosa, Antonietta Pastore ripercorre la sua appassionante scoperta di un paese ignoto e lontano, conducendoci dentro le case dei giapponesi, oltre il gradino del “genkan” che segna la soglia dell’intimità domestica. È un Giappone inatteso, meno formale e ordinato di come lo immaginiamo di solito, in cui tradizione e modernità convivono in un equilibrio mobile e umanissimo. Conoscere veramente un posto, soprattutto quando si tratta di un paese per noi esotico e lontano come il Giappone, è il frutto di un processo lento, articolato, non sempre lineare. Questo ci dice Antonietta Pastore fin dai titoli delle tre parti in cui è diviso il libro – scoprire, comprendere, ritrovare –, che corrispondono a tre diversi momenti della sua vita: il primo viaggio in Giappone, per la luna di miele; i sedici anni trascorsi lì; e poi l’ultimo dei tanti viaggi compiuti per rivedere gli amici, nella primavera del 2024. In tutto, un arco temporale di mezzo secolo. Non sono molte le persone che possono vantare una conoscenza tanto approfondita del Giappone, eppure nel tracciare questo squisito affresco della vita quotidiana dei giapponesi, nel descrivere case, oggetti, usanze e spiegarne l’origine, Antonietta Pastore sceglie di raccontare la propria conoscenza nel suo farsi, mostrando scherzosa dubbi e inciampi, entusiasmi, gaffe e adattamenti. Siamo al suo fianco quando spia il comportamento del marito per capire se può scartare subito un regalo di nozze; arrossiamo con lei nello scoprire che non avrebbe dovuto svuotare la vasca dopo essersi fatta il bagno per prima; comprendiamo la sua scelta di portare il kimono solo in casa, come vestaglia, e di chiuderlo come le pare, in barba alle regole tradizionali. Il grande vantaggio di una frequentazione tanto lunga è la possibilità di vedere come cambia un paese e di capirlo, anziché coglierne solo un fotogramma, e quindi anche di individuare quello che, nonostante il passare del tempo, rimane uguale. Scopriamo per esempio che, sebbene ormai nella maggior parte delle case giapponesi di stanze con il pavimento in tatami ce ne sia solo una, perché la lavorazione della paglia è diventata troppo costosa, le persone continuano comunemente a misurare le stanze in tatami. Distratti da tablet e altri gadget tecnologici, i bambini giapponesi, come quelli di tutto il mondo occidentale, non hanno piú le buone maniere di una volta ma, richiamati all’ordine, sono in grado di inchinarsi in modo grazioso e sincero. Raccontandoci tutto questo con grande partecipazione, Antonietta Pastore ci offre un’immagine molto viva, toccante e attuale della società giapponese, e la rende al contempo più vicina e comprensibile.

La ballerina
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Materiale linguistico moderno

Modiano, Patrick

La ballerina / Patrick Modiano ; traduzione di Emanuelle Caillat

Milano : Einaudi, 2025

Abstract: Dare l’illusione di prendere il volo: è alla ricerca di questa leggerezza che la ballerina prova i suoi passi instancabilmente. In una Parigi invernale di anni lontani, la giovane donna, affrancata da una nebulosa vita in provincia, insegue il sogno sul palcoscenico senza abbandonare il ruolo di madre del piccolo Pierre. Ma non si può sempre sfuggire ai fantasmi del passato. Quegli stessi fantasmi che oggi, in una Parigi molto diversa ostaggio dei turisti, riportano il narratore ai tempi dell’incontro con la ballerina, quando lui iniziava a librarsi nel mondo della letteratura… «Una disciplina che ti permette di sopravvivere»: alla ballerina lo ripeteva sempre il suo insegnante Boris Kniaseff. Poi, altre parole. La diagonale, la variazione, il déboulé, la sbarra a terra. Qualcuno ora le sussurra. È il narratore senza nome che custodisce i frammenti della storia della ballerina. I loro destini si erano incrociati in un’epoca lontana, quando entrambi cercavano di spiccare il volo, lei sul palcoscenico, lui nel mondo della letteratura. Insieme, l’aspirante scrittore e la ballerina camminavano tra le strade di una Parigi invernale, rischiarata da quella luce che a volte si ritrova nei sogni, per rincasare quando lei finiva le lezioni di danza allo Studio Wacker, per raggiungere appartamenti in cui si tenevano misteriose riunioni, o semplicemente per passeggiare, tra confidenze taciute e fitti silenzi. La ballerina non parlava mai della nebulosa vita precedente, quando abitava in provincia, né tantomeno del padre di suo figlio, il piccolo Pierre. Il narratore badava spesso a quel bambino schivo con cui aveva un legame speciale, forse per via della sua stessa infanzia solitaria. Il volto di Pierre è l’unico che il tempo non ha offuscato. Il resto, solo «tessere di un puzzle, separate le une dalle altre per sempre». A distanza di anni, in una Parigi molto cambiata, estranea, chiassosa, un grande parco divertimenti per turisti, al narratore tornano in mente quegli istanti: diventa l’inizio di un viaggio a ritroso nelle nebbie della memoria, tra indirizzi perduti, luoghi clandestini, incontri con i fantasmi. Perché, ieri come oggi, non sempre si sfugge ai fantasmi del passato… In questa nuova indagine al cuore dei ricordi, Patrick Modiano si muove tra le pieghe di un presente vago e le profondità indecifrabili di ciò che è stato. Mentre tutto si cancella, l’amore, inafferrabile, resiste.

Polo Nord
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Materiale linguistico moderno

Kagge, Erling

Polo Nord : storia di un’ossessione / Erling Kagge ; traduzione di Maria Teresa Cattaneo

Torino : Einaudi, 2025

Abstract: Il racconto epico di un luogo quasi ultraterreno, dove il sole resta alto nel cielo per sei mesi all’anno e si eclissa nella distesa di ghiaccio per altri sei. Per chiunque, guardando l’orizzonte, si sia chiesto che cosa succede se si continua a camminare verso Nord. Pochi luoghi sulla Terra suscitano da sempre l’inquietudine e il fascino esercitati dal Polo Nord. Per millenni, da Erodoto in avanti, viaggiatori, cartografi, scienziati si sono interrogati sul punto più settentrionale del pianeta. E fu soltanto con le prime, leggendarie spedizioni guidate da Fridtjof Nansen e Robert Peary all’inizio del Novecento che molti misteri vennero svelati. Erling Kagge, che al Polo Nord ci è arrivato a piedi nella primavera del 1990, ricostruisce le principali esplorazioni tra i ghiacci e restituisce la suggestione del silenzio, il bagliore, l’incanto di un luogo mitico. “Polo Nord. Storia di un’ossessione” è un libro su quel manipolo di visionari che ha inseguito un sogno magnifico e su un universo magico ma fragilissimo che sta mutando forse per sempre.

Una piccola fine del mondo
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Materiale linguistico moderno

Milone, Paolo

Una piccola fine del mondo : intorno alla crisi psicotica / Paolo Milone

Torino : Einaudi, 2025

Vele ; 249

Abstract: L’impossibilità di comunicare con gli altri, la perdita e il distacco da sé, il crollo dell’io e del proprio mondo: sono tanti i modi per definire una crisi psicotica, ma ognuno è diverso perché diversa è l’esperienza che ogni paziente ha di questo disturbo mentale. Da un punto di vista psichiatrico è uno dei quadri più significativi, perché è a tutti gli effetti una piccola fine del mondo. Ogni psichiatra di un medio ospedale italiano, che faccia riferimento a circa duecentomila abitanti, vede ogni anno varie centinaia di persone, uomini e donne del tutto simili a noi, persone che lavorano, hanno una famiglia, affetti, amici, interessi, che un giorno qualunque della loro vita entrano in una crisi psicotica. Ne possono uscire dopo poche ore, qualche giorno oppure settimane, ma non sarà facile ricucire questo strappo nel tessuto della mente. Paolo Milone con la consueta empatia e grazia espressiva racconta le storie di vari pazienti che hanno vissuto questa spoliazione dell’io: affronta così un mostro di cui pochissimi parlano e che è ora che venga stanato.

Cosa ho visto ad Auschwitz
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Materiale linguistico moderno

Fajnzylberg, Alter

Cosa ho visto ad Auschwitz / Alter Fajnzylberg ; a cura di Roger Fajnzylberg e Alban Perrin ; prefazione di Serge Klarsfeld ; traduzione di Giulia Randone e Christian Delorenzo

Torino : Einaudi, 2025

Abstract: I diari mai pubblicati di Alter Fajnzylberg, un ebreo polacco sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, costituiscono un contributo straordinario alla ricostruzione storica della Shoah. Deportato ad Auschwitz-Birkenau con il primo convoglio partito dalla Francia nel marzo 1942, Alter subì uno degli orrori più terribili del nazismo: fu costretto a entrare nel “Sonderkommando”, il gruppo di prigionieri ebrei a cui toccava lavorare a contatto con le camere a gas e i forni crematori. Si tratta quindi di un documento di una potenza unica, probabilmente una delle ultime voci che arriveranno dall’orrore dei lager, che ci permette di fare luce su aspetti inediti della pagina più nera del Novecento. Fajnzylberg rievoca infatti in queste pagine la lotta interna al campo e il ruolo che lui stesso ebbe nella resistenza sotterranea, e ancora adesso perlopiù ignota, portata avanti dai “Sonderkommandos”: vere e proprie rivolte e azioni di guerriglia per sabotare la macchina della morte nazista. L’eccezionalità del suo ricordo è data non solo dall’essere stato uno dei pochi sopravvissuti tra i prigionieri addetti al compito più tremendo di tutti, ma anche dall’aver fatto parte del gruppo di internati che riuscirono a scattare le famose e sconvolgenti fotografie che ritraggono i recessi dei forni crematori. Una tra le testimonianze più importanti del Ventesimo secolo che, proprio come le parole di Fajnzylberg, nell’esibire l’oblio a cui sono state strappate, mostrano tutta la violenza messa in atto da chi aveva immaginato di annientare la memoria di quegli eventi e quegli uomini; la violenza di chi aveva programmato la cancellazione completa delle loro esistenze dalla Storia. «Durante il mio internamento nel campo sono stato picchiato e preso a calci. Sono sopravvissuto a questo orribile campo di morte, all’inferno hitleriano. Appartengo a un ristretto numero di individui che alla morte sono sfuggiti. Mi sono salvato per miracolo. Delle 1118 persone che sono state deportate da Compiègne, ne sono sopravvissute appena 25. Ho trascorso 5 anni nelle prigioni polacche al tempo di Rydz, Beck, Koc e simili tirapiedi. Ho trascorso oltre 2 anni nei campi di Saint-Cyprien, Gurs e Argelès. Ho passato 4 mesi in un altro campo [a Drancy], 3 mesi e mezzo a Compiègne e 3 anni ad Auschwitz e Birkenau. Lì sono diventato un vero «musulmano», ma il mio amico Szymon e l’infermiere Mietek, che lavorava al “Krankenbau”, mi hanno aiutato a uscirne, così come Jakub, che mi gettava del pane nella cella e, cosa ancora più importante, talvolta anche delle sigarette. Infine, sono sopravvissuto grazie alla nostra organizzazione clandestina. Ciascuno aiutava l’altro come poteva. Nei campi ci si organizzava la vita per combattere contro l’oppressore. Stringendo i denti e confidando nella vittoria della giustizia sulla barbarie chiamata nazionalsocialismo, siamo diventati uomini duri e animati da ideali per i quali più d’uno tra noi ha sacrificato ciò che aveva di più prezioso, cioè la propria vita. Che coloro che non ebbero l’onore di attraversare il paradiso hitleriano di Auschwitz, possano conoscere ancora un po’ di verità».

Amicizie
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Materiale linguistico moderno

Agamben, Giorgio

Amicizie / Giorgio Agamben

Torino : Einaudi, 2025

Abstract: «È piú semplice definire l'amore che l'amicizia, più facile dire «ti amo» sembrando sinceri, che dire «ti sono amico» senza che il sospetto dell'impostura adombri le nostre parole. Per questo, la sola definizione dell'amicizia che mi pare accettabile è quella antica, che vede nell'amico un “alter ego”, un altro io - cioè qualcuno che rende amabile e grata la cosa più odiosa: il nostro io [...] E proprio perché - come la vita - è in qualche modo sempre insieme esaustiva e incompiuta, puntuale e manchevole, l'amicizia esige la nostra testimonianza». Attraverso diciassette brevi, folgoranti ritratti, Giorgio Agamben evoca il ricordo degli amici che hanno lasciato un segno indelebile sulla sua vita e sulla sua persona.

Volevo essere un uomo
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Materiale linguistico moderno

Ravera, Lidia

Volevo essere un uomo / Lidia Ravera

Torino : Einaudi, 2025

Abstract: Volevo essere un uomo è una confessione intima e politica, in cui raccontarsi vuol dire anche raccontare il femminismo, le battaglie vinte e quelle ancora da vincere, ma soprattutto l’approssimarsi della fine di un mondo e il bisogno di credere che un altro mondo è possibile. Magari a misura di donna. «Per più di duemila anni l’invidia verso le donne è stata negata. Peggio: è stata trasformata in svalutazione e le ha spinte ai margini, le ha sminuite, ostracizzate dalle stanze del potere, ridotte a funzioni della propria prosperità, del proprio godimento, le ha calunniate, le ha trattate da inferiori. Le ha bruciate sul rogo come streghe o internate nei manicomi come pazze. Mossi dall’invidia, per una diversità che non potevano dominare, si sono vendicati, gli uomini. E tu vuoi essere uno di loro?» Appena nata aveva già deluso sua madre: non era un bel maschietto. A cinque anni avrebbe voluto salire sugli alberi e sporcarsi i vestiti. A quindici non essere molestata. A sedici prendere il megafono in mano e arringare i compagni di scuola. A venti non dover aspettare di essere scelta. A cinquanta non preoccuparsi della menopausa. A sessanta delle rughe. A settanta dello stigma sociale che colpisce le vecchie. Ripercorrendo la sua vita di lotta e di scrittura, Lidia Ravera oggi fa i conti con una fantasia sempre taciuta: avrebbe voluto essere un uomo, anche se le donne le ama di più. Avrebbe voluto essere un uomo perché la società in cui ha mosso i primi passi era a misura d’uomo. E quella in cui muoverà gli ultimi, molto probabilmente, lo sarà ancora. Avrebbe voluto essere un uomo perché non aveva alcuna vocazione al martirio. Perché non voleva dover scegliere fra gli affetti e la carriera, non voleva reprimere parti di sé per adeguarsi al ruolo di femmina, non voleva educarsi ad aspirazioni modeste, non voleva e non vuole sentirsi sempre sotto osservazione o sotto scacco.

Un venerdì di aprile
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Materiale linguistico moderno

Antrim, Donald

Un venerdì di aprile : storia di suicidio e sopravvivenza / Donald Antrim ; traduzione di Cristiana Mennella

Torino : Einaudi, 2025

Abstract: Una storia di dolori e tremori che risale la corrente: «dobbiamo distinguere tra cervello e corpo? Il cuore mi batte forte per l'ansia o sono ansioso perché il cuore mi batte forte?» A guidare ogni riflessione, a innervare il racconto, è sempre l'umanità, il contatto con gli altri: eluso, inseguito, perso, ritrovato, è il fulcro delle pagine che Donald Antrim scrive, a distanza di anni, mentre guarda la scala antincendio fuori dalla sua finestra. «Il memoir di Antrim è triste, ma anche commovente, acuto e, per il fatto stesso che è stato scritto, pieno di speranza». - New York Journal of Books Il venerdì di aprile del 2006 in cui sale sul tetto del suo palazzo di Brooklyn, Donald Antrim ha la percezione che il mondo stia urlando. Infreddolito e senza scarpe, non sta facendo «una scelta né una minaccia né un errore». Che cosa, allora? Partendo da quel lontano pomeriggio, Antrim racconta e analizza i suoi ricoveri in ospedale, le «guarigioni, ricadute e guarigioni», i ricordi famigliari, le sensazioni di dolore, i progressi e le terapie, ma anche gli errori che da sempre facciamo nel leggere una storia come la sua. Un venerdì di aprile, la sera scende sui palazzi di Brooklyn. La gente rientra dal lavoro, il cielo vira dall'arancione al blu. Un uomo aggrappato alla scala antincendio del suo condominio si lascia penzolare nel vuoto. Questo, per Donald Antrim, non è un inizio - «sul tetto avevo la sensazione che stessi morendo da sempre» - e non è una fine, ma un punto di svolta, quello da cui sceglie di partire per raccontare la storia di una lunga malattia: «preferisco chiamarla suicidio». Antrim non elude, non edulcora, non drammatizza. Ripercorre i ricoveri in ospedale dopo il pomeriggio sul tetto, le terapie - compresa quella elettroconvulsivante, a cui si sottopone su suggerimento del collega David Foster Wallace -, le guarigioni e le ricadute, ma va anche all'indietro nel tempo; ripesca attimi dolorosamente nitidi di un'infanzia passata fra traslochi e crisi famigliari, torna a più riprese sui genitori alcolizzati, l'insonnia, la sfilza di farmaci, terapeuti, angosce, approcci, sintomi. Resoconto analitico, cronaca dal di dentro, quello di Antrim è un memoir spiraliforme che restituisce idee molto precise su che cos'è il suicidio - un male sociale - e come lo si dovrebbe trattare.

Un luogo scomodo
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Materiale linguistico moderno

Littell, Jonathan - D'Agata, Antoine

Un luogo scomodo / Jonathan Littell, Antoine D'Agata ; traduzione di Maria Baiocchi

Torino : Einaudi, 2024

Abstract: «La bellezza del libro sta nel modo diretto e insieme delicato di riporre le ceneri di questa terra di sangue in un’urna letteraria in cui niente si dimentica e tutto cattura lo sguardo, sgomento». - Les Inrockuptibles Nel 2021 Jonathan Littell e Antoine d’Agata iniziano a lavorare insieme a un libro su Babyn Yar, il luogo alla periferia di Kyiv in cui avvenne il massacro nazista del 1941. Poi il 24 febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina. Gli orrori di un’epoca lontana riecheggiano assordanti: lo scrittore e il fotografo ricominciano allora da un’altra prospettiva, testimoni diretti delle atrocità di una nuova guerra. Tra le cicatrici di un passato sepolto e le ferite laceranti del presente, "Un luogo scomodo" è il racconto per parole e immagini di un viaggio attraverso un’Ucraina piena di dolore, che aspira solo a una qualche forma di pace e normalità. Un luogo, che cos'è? Un luogo in cui sono successe cose, cose orribili? Un luogo concreto, di cui si sono cancellate e si continuano a cancellare le tracce, ma che rimane carico di memoria, una memoria sotterrata come lo sono stati i corpi, ripiegata sotto la terra spianata? L'Ucraina, da tanto tempo, è piena di questi «luoghi scomodi» che mettono a disagio tutti: crimini dello stalinismo, crimini nazisti, crimini dei nazionalisti, crimini russi; i massacri si susseguono su questo territorio ferito, che aspira solo a una qualche forma di pace e di normalità. Prima dell'invasione russa dell'Ucraina, Antoine d'Agata ed io avevamo cominciato a girare in lungo e in largo per Babyn Yar, il luogo in cui nel 1941 avvenne il massacro degli ebrei di Kyiv e poi di decine di migliaia di altre vittime. La guerra ha interrotto il nostro lavoro. Lo abbiamo ripreso poco dopo in un'altra forma e in un altro luogo, a Buca, la cittadina alla periferia di Kyiv divenuta tristemente famosa per le atrocità lì perpetrate dalle truppe di occupazione russe. Di nuovo un luogo dove sono successe cose; di nuovo un luogo di cui si cancellano subito le tracce. Circolare, circolare. Allora come scrivere, come fotografare quando non c'è letteralmente niente da vedere, o quasi? (J. L.)